Semplicemente Uva: Altro non è il vino se non la luce del sole mescolata con l’umido della vite

Spesso ci si dimentica (volentieri?) di queste parole di Galileo Galilei qualche secolo fa . Siamo tutti presi, qui a Semplicemente Uva a indagare terreni mineralità e insondabili riferimenti ferrosi nei vini che quasi ci scordiamo che per fare il vino ci vuole la luce e qualcuno che la sappia leggere, ascoltare, incantare.  Una chiave di lettura che attraversa molti dei vini “cosiddetti” naturali e in particolare i 4 che ho avuto il piacere di raccontare e scoprire insieme al pubblico accorso in sala durante la fiera.

Quattro terroir diversi, uno archetipico come la Borgogna, uno “nuovo” e di gran moda come il Carso (Oslavia in particolare), un classico che però lo sta diventando solo adesso come il Chianti Classico e infine uno storico e sui generis, fortemente legato al suo vitigno come il Montepulciano d’Abruzzo.

Pacalet e il Mersault
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Tra i vari terroir bianchi di Borgogna, pare sempre che Mersault  con le sue marne bianche del Giurassico medio, più giovani dei vari Montrachet ma più ricche di argilla, siano quelli più riconoscibili, di sicuro rappresentano l’assurdità di un sistema che non premia nessuno dei suo cru come “grand” relegandoli al rango di premiere cru. Una storia che parte da lontano, dagli albori dello chardonnay in Borgogna che mostrò per primo a Montrachet le sue meraviglie di acidità e mineralità e si portò dietro i comuni che seppero attaccarsi il nome usurpando un prestigio che forse spettava proprio a Merasault. Vini grassi, spesso rotondi, ricchi e spesso dorati con note caratteristiche di biancospino e tiglio, nocciolina e mandorla e l’aroma inconfondibile di prugna mirabelle. Volendo, anche i suoi singoli Premier Cru  Les Perrieres, Les Genevrieres, Les Charmes, Le Poruzot, Les Boucheres, and Les Gouttes d’Or avrebbero voce propria e distinta. Dei 6 , Charmes è il più affascinante con una freschezza e soavità che fa più Puligny (è il più vicino al Grand Cru in effetti).
Terroir particolare questo con 76 ettari dove la marna calcarea si lascia spesso sostituire da argille con alta componente silicea, che pare quasi richiamare e imprigionare il sole all’interno degli acini.  Poi l’acqua, in questa zona molto in profondità e che obbliga le viti a scavare con le radici e pescare sempre più a fondo l’umido della terra.
Pacalet vinifica 0,2 ettari, poco più di 6 botti di questo cru e lo fa in maniera rispettosa e cristallina, con legni usati e strausati. Nessun lievito aggiunto, pochissima solforosa, accuratissima scelta dei conferitori e cura delle pratiche in campo. Il vino è molto più verde di altri Mersault e non cede alle lusinghe della grassezza riveladosi al naso come citronella, lime, agrumato piccante e con le note floreali limidissime. Poi la  nocciolina, la mandorla e la prugna mirabelle che si muovono sopra un tappeto minerale saporosissimo già al naso. In bocca il vino dimostra tutta la sua giovinezza e si apprezza più per quel che sarà con una grande concentrazione e una compattezza impressionante. Da seguire con molto interesse ma già oggi lo si apprezza per la sua trasparenza nei confronti del terroir, di Mersault ai cui dettami lo chardonnay si piega ubbidiente senza smancerie di sorta.

Paraschos e il Collio Oslavia
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La luce nella regione del Collio Goriziano e in particolare modo tra Oslavia e la Slovenia, quasi anagrammi terroiristici, è quasi irreale tanto sa essere calda, intensa, diversa, marina e montana allo stesso tempi, continentale e mediterranea senza soluzione di continuità, in nessun altro posto d’Italia o d’Europa puoi quasi respirare l’aria mitteleuropea guardando il mare e assaporare il mare con il fresco dell’interno. Sotto ai piedi, la ponka, la marna che facilmente si sgretola, terra ricca di calcare, potassa e fosforo, fondamentali per la pianta e la sua capacità di estrarre dal terreno le sostanze fondamentali alla sua crescita  ma anche per la luce particolare che deve gestire.
L’azienda Paraschos produce tre vini ma il fiore all’occhiello pare essere questo cru “Slatnik” non molto distante dalla Ribolla di Gravner, un cru piantato da tempo con chardonnay, sauvignon e piccole percentali di picolit, verduzzo, malvasia. Macerazione per 6 giorni sulle bucce e legno quanto basta, senz esagerare. Il terroir esce dal bicchier e già nel bicchiere alla vista pare aver ingerito e fatta propria tutta la luce che gli veniva generosamente offerta. Aromi di the al bergamotto, arancio candito, fico fresco e melone, note iodata persistente e lieve fumè. Bocca con accenno di tannino, sapida  ma viva e vitale, dove l’ossidazione è palesemente un mezzo per consentire alla marna e alla luce di dire la sua e non un fine commerciale di sfruttamente di una idea di arancio così in voga oggigiorno. Persistenza e allungo degni di grandi piatti e impressione davvero di un vino che è riuscito a cogliere il momento e l’attimo giusto per uscire dalla terra.

Camartina e il Chianti Classico
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Parlare di terroir nel Chianti Classico è una provocazione ma anche una conseguenza di una zona che si è scoperta capace e vogliosa di grandi vini solo dopo che l’idea del Cabernet ha reso evidenti a tutti la grandezza dei suoi terreni, qualcosa che la coltivazione classica e senza amore per il sangiovese rendeva semplice e facile  ma quasi mai eccellente. A Greve in Chianti domina il galestro e affiorano anche importanti zone di arenarie con sabbie silicee dalla grande capacità di gestire la luce. Luce che nei vigneti di Querciabella arriva a sostare quasi 2-3 ore in più che in molte altre della DOCG che percorre la zona. Vigneti di Cabernet e di Sangiovese di età che li rende interessanti, una luce calda, intensa di esposizioni felici e vento che soffia leggerezza. Terroir che risponde con i vini, dando equilibrio e grandi capacità di venire a maturazione in maniera ottimale al Cabernet che al Sangiovese, donando un naso appena pirazinico ma che è soprattutto un elegante miscela di frutta di bosco (ribes bianco e rosso, mora, ciliegia) e note mediterranee come l’elicrisio, il peperone, l’oliva e una nota particolare come di ferro.  Sangiovese regala tabacco liquirizia a un fresco durone. Bocca che inizia e quasi non ce ne se accorge tanto veloce è il vino a percorrerci e lasciare la bocca stuzzicata e impressionata dalla nota fruttata e minerale che il vin o lascia dietro di sé. Elegante  e chiantigiano, libera la viola la soavità e il frutto di queste terre come  e spesso quasi meglio di qualche Chianti Classico. Quando c’è il terroir.

Emidio Pepe e l’Abruzzo
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La lotta con la luce è uno dei chiodi fissi di Edoardo Valentini ma in genere chiunque faccia qualità in Abruzzo con il Montepulciano deve in qualche modo risolvere la questione dell’esuberanza di questo vitigno che esonda dai vigneti e dai bicchieri grazie anche all’argilla che qui consente alcol più importante e intensità di frutto impressionanti. Ma spesso si fa difficile il domare questa uva così come fu dura per i Romani domare Annibale e i suoi che da queste parti passarono a rinforzarsi del vino degli Abrutzi.
Emidio Pepe con le sue figlie porta avanti un vigneto in perfetto equilibrio con l’ambiente e gli elementi,  tra il mare a poco più di dieci chilometri, le influenze climatiche del Gran Sasso sullo sfondo e una esposizione ottimale al sole e alla sua luce. L’eccesso di vigore del Montepulciano in qualche modo viene equilibrato poi dalle vasche di cemento dove viene vinificato e affinato e solo una volta travasato. Minima solforosa, minimo intervento, grande risultato in termine di frutta, ricchezza, profondità e sugosità per un vino ogni volta diverso e con bottiglie spesso umorali ma sempre autentiche e golose. Oggi ci è capitato un trio di bottiglie in grande spolvero di un’annata qui grandissima come il 2005, di cui si intravede già una maturità espressiva di carnosità di amarnea, mora di rovo, china, anice, cardamomo e pepe nero, macis e liquirizia. Ricco e deciso, sommamente da tavola, marchia la bocca e pare preparare chi lo assaggia ai grandi vini dell’Italia del Sud.

La lotta per il terroir passa anche per la luce, per la capacità di certe uve e di certi terroir di innalzarsi fino alle sommità delle viti per catturarla e imprigionarla dentro gli acini, a dare vita a vini che parlano la lingua particolare, caratteristica e sempre uguali solo a sé stessi dei grandi vini e per questi giustamente universali. E forse anche paraddossalmente  internazionali e capaci di affascinare chiunque si affacci a vini come questi.