Racconto di Natale in Trattoria: il Cappone!

Per l’occasione della pubblicazione del libro della 22023, il nostro Paolo Gori ha trovato il tempo di raccontare il Natale in Casa Gori tra ricette, riti e usanze che pescano dalla tradizione contandina di Nonna Irene ma non solo. Oltre che nel bel libro realizzato per questa occasione, lo riportiamo qui per augurarvi un bellissimo Natale e delle serene feste, il 2024 ci aspetta e non sarà semplice!

Niente era lasciato al caso, il giorno in cui si tirava su l’albero, quando si srotolavano i fogli di giornale con notizie di cose passate che avvolgevano le statue del presepio. A ognuna il suo posto! Chi più vicina alla grotta, il Gesù nascosto sulla credenza, i re Magi a debita distanza già in ginocchio in mezzo al deserto, che poi entravano in scena e ci stavano un giorno solo che l’Epifania tutte le feste si porta via. Non erano i tempi che toglievi le zucche e mettevi già le ghirlande, che le zucche non c’erano ancora in effetti, né gli alberi polverosi in soffitta che stanno su una mesata.

Tutto era breve e si aspettava per molto. Aspetta ad aprire il panettone, aspetta ad addobbare l’albero, aspetta ad accartocciare stagnole per far sgorgare fiumi e laghi per le ochette di plastica di un’innevata Palestina da pattini di argento. Narra la famiglia, ma i tempi che ricordo già avevano ceduto alla fretta, che l’albero e il meticoloso presepio si facessero solo la notte di Natale, mai ho capito quella notte quante cose potessero accadere. La lettera di Babbo Natale non si usava, che educazione vuole che non si chieda ma che si riceva, si ascoltava e non si aspettava che le cose fossero dette.

Di un gran parlare si faceva invece sul cappone, animale leggendario di cui non sapevo l’origine. Dopo Ferragosto era subito Natale nella mia famiglia, almeno per il cappone lo era davvero. Dove lo mettiamo su?, da chi lo facciamo fare? Dalla Capraza o da Dino del Tontera? Dalla zia Giulia al Ponte o dal Pagliai? “Ma quello c’ha i maiali lo fa grasso ma puzza di letamaia!”. Tutto ruotava intorno a questo pollo leggendario che si mangiava solo a Natale e anche in modo assai semplice: in brodo! Neanche fosse una lepre alla Royale. Vero che da lui sgorgava un brodo piu ricco di stelline della carta sgualcita del cielo di Betlemme. Vero che col suo fegatino si spalmavano i crostini che davano inizio al pranzo di Natale facendo a spintoni col quelli di burro, salmone e spicchio di limone. Mangiava assai ma un fegato così grosso neanche un’oca del Perigord, ma c’erano più domande che risposte di scienza in quel periodo di festa, Babbo Natale, Befana, Gesù bambino e tutte le stranezze dei giorni del solstizio.

Tutto vero ma parlare di lui per quattro mesi e di regali e addobbi farne accenni sfuggenti mi pareva un po’ esagerato.

Le prime avvisaglie del Natale erano le ceste e la paglietta di plastica che scendevano giù dai piani alti del magazzino della mia trattoria, zio stava pomeriggi a riempirle di panettoni e bottiglie Rossi Gancia e Martini, Fontanafredda per i più ricercati. La bottega era un gran fermento, piano piano uscivano anche gli addobbi, palle e ghirlande argento. Per il presepe e l’albero no! era ancora presto, c’era da aspettare. Ormai era l’otto dicembre e si chiedevano insistentemente notizie del cappone.

La seconda di avvento verteva sulla necessità di prevedere anche il fritto o solo l’umido per il pranzo di Natale. Il pranzo di Natale non lo si affidava al caso, i posti, la tovaglia, le portate, i colpi di teatro, i torroni e i datteri erano tutti ben orchestrati. Ognuno giocava un ruolo, chi comprava, chi addobbava, chi portava i panforte, chi le carte. Al centro c’è il grande calderone del brodo di Natale, dentro ci finiva la zampa, la lingua, la sorra e la copertina, il cimalino e, manco a dirlo, a fare da RE e rubare quasi il posto a Gesù bambino, il cappone.

La terza di avvento era passata e la stanchezza del lavoro faceva piombare tutto in uno strano silenzio quasi come se quel pranzo della festa del bambinello si stesse allontanando e si perdesse nella nebbia della bottega dove ancora si fumavano sigari e sigarette giocando a carte fino al TG. La porta di soffitta di casa si chiudeva a doppia mandata e quello era uno dei segnali inequivocabili che il Natale era vicino, un po’ strana la cosa dato che quella custodia le decorazioni per l’albero e le statue di cartapesta del presepio. Poi da grande avrei capito che la porta serrata celava i regali che Babbo Natale nascondeva anzitempo in soffita perché del resto tutto in una notte non si poteva trasportare.

La quarta di avvento vedeva arrivare come stella cometa e nunzio della festa il cappone, si piazzava in cella come la stella sulla stalla. A vederlo così era un pollo un po’ grosso dal petto potente ma come potesse bastare per tutti me lo domandavo. Preso in custodia da nonna ri-apparva fumante con un nome per ogni pezzo sulla tavola di Natale: la coscia per lo zio, il boccon del prete per caio e il petto per la zia… eravamo in dodici almeno ma ognuno aveva il suo pezzo. Le cose e gli avvenimenti precipitavano, il grande baule con i personaggi del presepe in cartapesta piombava giù dalla soffitta. Piante grasse e felci prendevano il loro posto nella quinta, queste stavano in giardino un anno per fare la loro scena e per due settimane in bottega coltivate da mio zio, scenografo del grande presepe.

La stella sul fronte di casa si accendeva. Il dado era tratto. La sera ogni famiglia passava il Natale a casa, ci saremo rivisti tutti insieme – nonni, zii e nipoti – per il Pranzo di Natale.

Zio Giuliano, il maggiore dei tre, era l’unico ammesso alla preparazione del pranzo di Natale, a lui l’alchimia della insalata russa, gli ingredienti penso che li trovasse già preparati dalla cucina, anche perché non sapeva farsi neanche un uovo al tegamino: le verdure scottate, i sottaceti, i funghetti sott’olio, la giardiniera e la maionese. A lui dirigere l’orchestra e assemblare il tutto in modo che l’agro non prevalesse sul grasso e il dolce sul fresco. Altro tocco da gran mastro la decorazione che era più complessa delle vetrate della chiesa parrocchiale per la messa della Sacra Notte. Altri potevano portare panettoni, torroni e panforti comprati nelle botteghe più belle di città ma il fuoco della cucina e le portate calde del pranzo erano di esclusiva spettanza di mia nonna. A lei battere i crostini, girare l’arrosto e friggere le braciole e cosa quasi più sacra della Messa di mezzanotte vigilare sul gran pentolone del Brodo di Natale. Chi se non il cappone sta al mezzo di quel magico calderone? Paolo hai voglia di badare al cappone? Erano 4 mesi che si faceva un gran parlare di quel cappone e ora era nella mia responsabilità. Sale tempo fuoco giare che ne sapevo io come si cuoce un cappone? Tutto era pronto: la tavola apparec-chiata, i parenti arrivati, le prime schermaglie del pranzo di Natale andate in atto. Le scodelle dei tortellini in brodo quasi asciutte, beh almeno per il brodo ero stato all’altezza riscuotendo consensi e già vaticinando in quel brodo la futura eredità del mestolo di nonna.

Con calma e liturgiche movenze nonna afferrò il forchettone e uno a uno tolse i pezzi dal brodo: la lingua, il cimalino, le costoline… arrivava come i re Magi da ultimo il cappone e lo stese sulla pentola. Lo teneva ben in alto fermo a finire di sgrondare il brodo: SPLASH!

Lo avevo cotto troppo e la carne non aveva retto alla presa del forchettone. Il cappone ricadde nel brodo con un gran tonfo assordante da cui segui un silenzio che mi sembrò più lungo dei preparativi dello stesso Natale.  Anni dopo vedendo Matrix simpatizzai fortemente per Neo che cascò giù dal palazzo come il mio cappone nella pentola. Non ero l’eletto.

Nonna non ci fece più di tanto caso, liquidò l’affare con un “il prossimo anno cuocilo meno”.

La mancanza di altri eredi, la passione o forse il caso a distanza di anni hanno fatto di me l’erede di Nonna nella cucina di Burde, nonostante quel cappone…